Testi critici

Marina Bakos
Critica e storica dell’arte

Metafore di vita tra simbolo e realtà
Coerenza e conformità accompagnano da sempre la creatività di Ariela Böhm. Cifra identificativa del suo modus operandi è quel pensiero germinale, o idea ispiratrice che alimenta la molteplicità dei suoi sistemi produttivi.
Una costante nella sua produzione è infatti l’inesauribile ansia verso la sperimentazione di nuove tecniche come di nuovi materiali e il suo fare arte – sorprendente per la capacità e la scrupolosità con le quali esplora, analizza, passa al vaglio aspetti che della vita sono  origine e ragione – si fonda su una scientificità radicata e consapevole che procede in egual misura tra spaccati di macrocosmo estremamente grande e dettagli di microcosmo infinitamente piccolo. Rivelando un entusiasmo ed un coraggio non comune, l’artista, come dice, tenta “di decifrare tanto il mondo circostante quanto l’interno di ciascuno di noi”.
La sua scelta di un percorso creativo atipico e l’utilizzo di tecniche e materiali eterogenei, si calano in quella polifonia di modi di operare che, dal Novecento, ha dilatato il linguaggio dell’arte visiva. Questo spettro di possibilità espressive, nel quale ogni mezzo viene inglobato, genera in Ariela Böhm modalità esecutive che, lontane dall’essere semplici giochi potenziano il valore dell’invenzione.
La sua ricerca è ben radicata in un filone sperimentativo che rispetta in modo assoluto le leggi della materia costruttiva di volta in volta prescelta, adeguando, in modo impeccabile, anche sul piano pratico la progettazione dell’idea e la sua messa in atto.
All’artista contemporaneo è concesso, se non addirittura richiesto, di slittare tra competenze diverse, purché egli disponga di abilità specifiche che gli consentano di creare le proprie opere secondo il filo di una progettualità precisa e puntuale. Non è ammessa alcuna mancanza di rigore, né sul piano del pensiero, né su quello della realizzazione. Non basta l’idea ma occorre saperla tradurre in un dispositivo efficace.
Con un fiorire sorprendente di approcci tecnici, vera e propria “crosspollination tra linguaggi” (per dirla come Germano Celant), Böhm ci fa partecipi di emozioni e sentimenti che seguono filoni apparentemente estranei ma intimamente legati. Ma secondo l’accezione di Maurice Merleau-Ponty “Non si tratta mai d’altro che di far progredire il medesimo solco” e “di andare più lontano nella stessa direzione, come se ogni passo fatto esigesse  e rendesse possibile un altro passo”. Ciò che muove la creatività di Ariela – attraverso un lavoro faticoso e a tratti elaborato – è la voglia di sondare le infinite forme del pensiero umano: il suo solco è incentrato in quell’imponente tessuto di elementi che cuce in un unico racconto il palinsesto di ciò che siamo, percepiamo, ricordiamo, raccontiamo. Da anni ne scandaglia la trama, ne indaga l’intreccio, ne codifica la forma: sono del 1988 Cellule nervose II e III in cui la terracotta bianca disegna labirinti della mente e della memo- ria, intesse ragnatele di pensieri, sentimenti, emozioni. In Là dove scorre il pensiero del 2003 la ceramica accoglie pagine impigliate in una intelaiatura di cavi: l’orditura del pensiero affastella frammenti di epifanie emotive e in Pensiero femminile, le donne pensano in reti di fattori collegati del 2004 scava nell’universo femminile avvalendosi ancora della scrittura come metafora del mondo cognitivo.
La guida di una grande scienziata come Rita Levi Montalcini, ancor più che gli studi in Scienze Biologiche, legittimano la rigorosità dello scienziato in questo tessere il filo della sua ricerca della quale forza, energia e potenza immaginativa sono elementi chiave per una corretta lettura. Ma è su pura passione che essa affonda le radici, vuoi per originalità di scelte artistiche vuoi per specificità di tecniche e materie. Niente è lasciato all’improvvisazione. Ha studiato incisione, tornitura, ceramica e, dagli anni Novanta, si avvale anche della tecnica Raku.
Per esaltare una complessità essenziale e sottolineare la volontà di rifuggire da perfezione e levigatezza, l’artista esaspera fratture, provoca faglie, lascia tracce di vita.
La fittissima craquelure che percorre la terracotta saggia la trasformazione e l’impermanenza materica, il cedere all’implacabile forza del tempo, quindi l’ineluttabile deperibilità e la mortalità.
In Frammenti dal tempo del 1992 l’argilla viene plasmata in un bassorilievo di reperti arcaici i cui cromatismi abbrunati riflettono effetti chiaroscurali giocati sulla contrapposizione di forme lucide/opache. E in Foresta impossibile del 1991 il bianco sacrale dello smalto (una seconda pelle che riveste e protegge la terracotta) raggruma la memoria, fossilizza la storia: la natura viene reinventata e assume una connotazione puramente mentale e metaforica. Ogni mimesi viene rimossa per lasciare spazio ad una interpretazione del reale personalizzata e fantastica. Il magma primordiale, ribollente e solidificato, di Esplosione, scultura del 1998, ingloba “frammenti di me ancora sconosciuti e in parte indecifrabili” – dice l’artista. Lo specchio restituisce la realtà che fronteggia con una visione interiorizzata e inquieta, allo stesso tempo personale e collettiva.
Sotto la definizione di pagine di terra, di fuoco e di luce l’artista si cimenta, all’altezza degli anni Duemila, sul tema della lingua scritta, analizzata attraverso forme espressive che inglobano segni, forme, colori e parole. Metafore di vita, di cultura e di comunicazione. Di presenza umana che da salda si fa insicura e frammentata come Sul fragile supporto dell’esistenza del 1998 o cede sotto il peso di un vivere tormentato come in Crollo del 2013, Böhm orna la materia di lettere in rilievo, veri sigilli per stampare e ristampare pagine di profondità identitaria, di senso di appartenenza alla sua storia e alla Storia. Su formelle di Raku annerito e accartocciato nella memoria di un passato lontano, i grafemi, illuminati da chiaroscuri e da colorismi metallici, riempiono tavole bibliche in All’alba della scrittura del 2000-03, mentre in Cercando del 1993, disposti in sequenza ordinata e regolare, trovano il loro spazio naturale fra lembi di terracotta arricciata. Ingigantiti, sino a sembrare solo fiamme, perdono ogni accezione linguistica in Mezuzah del 1990 e diventano vero crogiuolo di riferimenti culturali nell’energia compressa di Torre di Babele del 2001. Qui la parola, intrappolata e soffocata dal cemento, è alla ricerca di un nuovo significare che spezzi il silenzio. Al centro di tutto è il linguaggio che è potenzialità, base del costruire e del comunicare: linguaggio che accomuna percorsi di umanità differente e parallela. Nel grande murale La leggerezza della cultura del 2008 del Centro Pitigliani di Roma un’eruzione di caratteri ebraici si libra nel bianco luminoso di due grandi pareti concave: numerosissime e sovrapposte nella parte alta si fanno più rade verso il basso, quasi sospese in una divina leggerezza.
Identità e comunicazione sono il tema di Io e l’altro del 2010 nel quale in una rete dorata si aggrappano due mondi separati, due individualità differenti: il contrasto cromatico fra l’oro e il nero evidenzia differenziazioni ma è ricucito al centro da una pioggia di parole.
Un volere spirituale di coesione che ripristina relazioni, ristabilisce contatti ma soprattutto trova una radice unica che solidifichi la collettività.
Il tema della memoria, connesso all’uso del linguaggio e della scrittura, è caratterizzante in un operato che si ancora a metafore di popolo e di cultura, ma soprattutto di appartenenza. Increspature I e Increspature II, tutte del 2009, giocano sulla giustapposizione di bianco e nero, lucido e opaco. Le asperità, profonde e disseccate del Raku accentuano reperti archeologici di antichi testi ritrovati e ribadiscono quel legame profondo e arcaico che in Recisione impossibile del 2013 diviene indissolubile. Fili dorati risaldano qui la frattura di una tavoletta, legano inscindibilmente le orme di umanità impresse sulla materia scura, suggeriscono una fusione radicata che travalica ogni possibile, immaginabile scissione. Un sentimento forte, religioso e culturale, è presente nell’ideologia di Böhm, ne rimarca l’orgoglio e ne sottolinea la specificità interiore.
Nel 2004 l’artista si cimenta anche con la dimensione monumentale della scultura. Che la memoria di ciò che è stato si fonda con la materia che ospita il nostro pensiero non è l’unico esempio di questo suo coraggio speri- mentale, ma forse il più saliente. L’opera, realizzata per il cimitero di Bolzano a ricordo dei cittadini altoatesini scomparsi nelle deportazioni della seconda guerra mondiale, consta di due prismi a sezione triangolare che si intersecano verticalmente. Lo spettatore, grazie al percorso a spirale necessario per raggiungerla, è invitato ad una modalità di lettura articolata. Da un lato una visione graduale permette la decodifica- zione dei dettagli esecutivi: il contrasto del bronzo fra lucido e opaco, le ramificazioni che avviluppano le tavole a formare reti di pensieri, le sagome umane stilizzate, la texture di lettere in rilievo prese dalla preghiera per lo Yom Kippur. Ma solamente tramite una visione dall’alto, è possibile realizzare che i due prismi formano un maghen David: la necessità che la visione dettagliata e quella globale si intersechino per rendere effettiva la compenetrazione con l’opera d’arte, viene ancora una volta ribadita.
Nell’investigazione di Böhm l’acqua è un punto nodale, come si evince dall’allestimento padovano della mostra Ariela Böhm: la forma del pensiero, ora quieta e stagnante, ora ribollente di movimento vorticoso, è sempre e comunque fonte di insostituibile vitalità. Contemplata in tutte le sue potenzialità, di trasformazione e creatività, sprigiona energia, rappresenta linfa vivificante e collage di stati d’animo. È materia prima e alfabeto con cui il racconto prende forma, le sue innumerevoli differenti condizioni ne rappresentano la veste grafica. Nella serie Percorsi (di cui in mostra sono esposti Percorsi II del 1995 e Percorsi VI, Delta del Gange del 2006) diramazioni e affluenti scavano il letto di un fiume fra scabri brandelli di identità soggettiva e corale: l’alveo ingloba vestigia, l’acqua scorre in rivoli lenti, tracima in labirinti la cui visione surreale elide ogni profondità prospettica. Cromie soffici o iridescenti si fanno strada tra placche contrastanti e descrivono uniformi meandri di un’ancestrale simbiosi fra terra ed acqua, fra la fluidità di quest’ultima e lo scorrere del tempo. Ariela, raggelando e pietrificando, mette in pausa questo perenne, naturale fluire. È un fermo-immagine che consente l’indagine dei valori fondanti di un’essenza primigenia e assolve a un dovere di riflessione che dia tregua al vivere convulso. Nell’arco degli anni nascono i tre cicli Acque. Quiete, Acque. Movimento e Acque. Cristalli. Nel grande pannello del 2006, Acque. Cristalli, formelle di Raku vengono fissate su un letto di piombo. Manipolato in morbide increspature il metallo da materia cupa e uniforme si trasforma in un cielo intriso di riflessi costellati di cristalli di neve. In Acque. Movimento del 2005 è invece il silicone, steso a pettine su superfici piatte e scure di un mare violaceo, che ricrea, in ondulazioni ora concentriche ora filiformi, lo sciabordare e il ritirarsi di gonfie onde oceaniche, e origina il vortice spumeggiante in Gorgo, la grande scultura esposta nel 1997 in occasione di una mostra a Camerino e ora anche a Padova. Lo sguardo si lascia catturare dalla fascinazione del moto ondoso in una visuale ravvicinata e prossima. Ad una dilatata panoramica aerea si affida, invece, l’analisi in Dall’alto del 1994, dove ideali altezze a campo lungo rendono astratta e immateriale ogni realtà. Stimolata dal potere di una sperimentazione sempre nuova di materiali sempre originali, l’artista utilizza la sabbia che, ricoperta di pigmenti nelle variazioni dei blu, sfumati o più marcati, circoscrive lembi di terra emergenti da acque immote e fonde. La medesima visione aerea, abbandonata la dimensione panoramica, si fa rarefatta e glaciale in Acque. Quiete dove corrugamenti e rilievi si alternano a piattaforme scure o lattiginose: è matericità informe che aggruma stucco e alluminio per guidare l’attenzione verso immagini di mondi lontani e fantastici.
Con l’ausilio di Rino Regoli, sperimenta nel 2004 un’alchimia degna della tradizione di antiche botteghe, che dà luogo a delicate e immateriali proiezioni di ombra e luce, così da trasformare un’impalcatura rigorosamente scientifica, come la struttura neuronale, in una ragnatela dall’effimera leggerezza di rugiada. In Creando connessioni del 2015 le particelle d’acqua restano avviluppate in giochi di luminosità rifratta e creano ombre rilucenti colme di vita e di pensiero. Come filigrane sottili e areate articolano agglomerati di coesione di un sentire umano. Eseguito con la medesima tecnica, Ombre di luce. La vita del 2012 allude ad architetture interiori di meccanismi di pensiero dove il coesistere essenziale di conscio e inconscio è evocato dal bianco della tela arricciata che è sipario a frammenti di una vita cosciente, fatta di gocce stillanti, cascate copiose, vortici gorgoglianti. Un paesaggio accidentato puramente mentale pervade Reti neuronali del 1992 in cui la craquelure, lasciatasi alle spalle la solidità del Raku, disegna su di un substrato di sabbia arida tortuosità ramificate, esigue come rigo di matita.
Negli ultimi lavori del 2015 il fulcro è ancora il pensiero umano e punto di partenza è il dato scientifico, che per raggiungere la sua consistenza di oggetto d’arte deve necessariamente sottostare a trasformazioni e rielaborazioni. L’indagine assume ora tutte le connotazioni di un’analisi fatta al microscopio: l’occhio del ricercatore decifra tracce mnemoniche generate dalla decodificazione di informazioni diverse (visive, acustiche, verbali, tattili o semantiche) e le propone come riflessione sulla capacità della mente umana di rielaborare idee, consolidare ricordi, immagazzinare memoria. Con Ricordando, progressione di tre sculture in bronzo, Ariela si avvale ancora una volta degli studi all’Accademia di Belle Arti di Roma e dell’apprendistato presso la fonderia Anselmi. Il tessuto solido e compatto nella prima opera si fa via via più fragile sino a raggiungere, nella terza, la parvenza di una trina elegante nelle cui maglie le idee si consolidano e si definiscono mentre nel grande ciclo Qualità del pensiero si aggrappano incrostazioni materiche e solide al colore fosco o rutilante della tela. Le sequenze Giorno, Notte, Risveglio, Declino si alternano e caratterizzano modalità e qualità di pensiero differenti nel corso di una giornata e nell’arco di una vita. Sulle tavole si dispiega una struttura complessa, a più dimensioni, dove un bagaglio di emozioni e sensazioni, attitudini e ritmi emotivi ricamano le trame di un vivere che a volte incede sicuro, altre si sofferma, altre ancora incespica sofferente sino a rallentare.
Inviti rappresenta un corpus di dodici sculture a tutto tondo, in travertino, alabastro, resina e metallo, in cui la forma viene abbozzata brevemente; non rappresenta, suggerisce. La mente dello spettatore è invitata a compenetrare l’opera, a lasciarsi andare piuttosto a sensazioni o pensieri evocati. Non ciò che l’artista vuole rappresentare deve essere motivo di indagine quanto piuttosto cosa e quanto l’opera suscita in ognuno di noi. E questo reticolato di emotività, ora sottile ora maggiormente rappreso, avviluppa e abbraccia le forme disegnando percorsi, lasciando tracce di sé. Nella creatività di Ariela Böhm, artista e scienziato, uniti in una produzione vasta quanto articolata, condividono un’analisi attenta e circostanziata dei fenomeni naturali nonché una ricerca primaria della struttura stessa. Ma, travalicando il mero dato scientifico e attraverso un’operazione alchemica di trasfigurazione della materia, Ariela partecipa direttamente al potere creativo della natura la quale, arricchita di emozione e mistero, diviene il fulcro della sua arte.

 

Maria Cristina Bandera
Critica e storica dell’arte

Il perché della scelta di un tema al contempo semplice e complesso – la forma dell’acqua / l’acqua che forma – lo spiega lucidamente, nelle pagine di questo stesso catalogo, Ariela Böhm da artista-scienziata qual è. Di questa giovane donna coraggiosa e determinata, ormai totalmente dedita all’arte, non si può, infatti, dimenticare il suo passato di biologa ai massimi livelli. Una ricerca solo apparentemente accantonata, in realtà trasfusa, nella sua valenza indagatrice, nel mondo della sua nuova esperienza artistica. Lo attestano l’osservazione lenta, meticolosa, meditata dell’acqua, l’elemento mobile e fascinoso per eccellenza, come pure l’acuta capacità di esperire, interrogare, dominare materie insolite adattandole alla necessità artistica di ricreare il vario e diversificato ambiente equoreo quasi fosse esso stesso un materiale preartistico assunto per essere plasmato. Ariela Böhm sigilla le sue opere con un rispetto profondo per le leggi della materia costruttiva di volta in volta prescelta. Predilige la ceramica trattata secondo l’antica tecnica Raku, esaltandone la legittimità interna, le forme significanti, i valori visivi, le superfici ora disseccate e aride ora lustre, le possibilità delle tramature e della luminosità cangiante e iridescente. La trasforma nel piatto meandro di acque e di terre – di pieni e di vuoti che si alternano – di una barena lagunosa, nella traccia tortuosa della foce di un fiume che scorre verso il mare, nelle infinite deviazioni e incroci di un corso fluviale che frantuma la superficie nell’ancestrale simbiosi di acqua e terra. La tramuta in stalagmiti e stalattiti che assumono la forma di una clessidra, la asseconda alle forme circolari di un’onda o di un mulinello creato dal vento, a quelle frastagliate e pur geometriche di candidi cristalli di ghiaccio, a quelle sferiche dei sassi emergenti dal greto di un fiume. Manipola morbidamente il piombo, che da cupo e uniforme diviene materia inquieta, intrisa di riverberi e di saettanti riflessi di luce, trasformandolo nella distesa di un cielo plumbeo ma vibrante e costellato di ipnotici cristalli di neve o nella distesa d’acqua che scorre limando e plasmando ciottoli. Si serve di stucco, alluminio e colori acrilici su tela o legno per rendere la frastagliata e magmatica distesa di ghiacciai dai riverberi bluastri, visti da un occhio lontano e dall’alto. Graffia il silicone, steso su superfici piatte e scure che paiono alludere a un mare violaceo, in lunghe forme sinuose che ri-creano l’incanto prolungato delle sue emozioni, del suo guardare lento, del suo scrutare le onde immense e spumeggianti, il loro rompersi e ritrarsi per riprendere forza, il loro propagarsi e accavallarsi, il loro farsi schiumoso e canuto. Usa la trasparenza e la levità di una resina dall’alchimia segreta, come vuole la tradizione antica delle botteghe, posata “sulla superficie interna della lastra di vetro”, per dare luogo a “delicate e immateriali proiezioni di ombra e luce”, così da trasformare una silente “struttura neuronale” nella vibrante forma geometrica di una ragnatela che rinvia alla leggerezza della rugiada. Si avvale del mezzo fotografico per porci di fronte allo scheletro di una barca sulla battigia, corrosa dallo sciacquio costante del mare che si placa sull’arenile, o per farci provare la sensazione impalpabile dell’evanescenza del vapore. Soprattutto, cattura la nostra attenzione così da farci partecipi delle sue stesse emozioni, permettendoci, guardandole, di dare compimento alle sue opere d’arte.

 

Virginia Baradel
Critica e storica dell’arte

Inseguendo l’acqua
Il primo sguardo rivolto alle opere di Ariela Böhm è ammirato dalla coerenza che affiora pur nella varietà delle soluzioni; il secondo, che subentra nel preciso istante in cui la curiosità volge in attrazione, è catturato dalla lirica combinazione di forme mobili e tracce perenni che contraddistingue il suo lavoro. Comprendiamo ben presto di trovarci ad una latitudine remota, sospesi tra due ordini di profondità, la scienza della vita e la cultura ebraica. La tentazione della vertigine è affine, in scala ridotta, a quella dell’artista che con intensa lucidità, ha scelto di dedicarsi a forgiare un pensiero sensibile, qual è l’arte se autentica. Nella ricerca della Böhm alcune manifestazioni fondamentali della vita naturale vengono accolte e quasi rivissute nelle segrete della sua interiorità: l’immaginazione e la scelta delle materie forniranno ad esse una cifra significante infinitamente più evocativa. Affascinati dal rigore del progetto, quale ci appare nella forma dell’opera, sorge in noi profani il desiderio di frenare la vertigine ma di rimanere a quella quota ermeneutica, non risalire in superficie, né spostarsi su altri piani. Laggiù, o lassù, in verità c’è molto, forse tutto, reso espressivo dalla variazione degli interventi, delle ipotesi di lavoro, delle rivelazioni da parte dell’artista che usa come radar la sua soggettività e come fucina il talento nella scelta delle materie e delle tecniche di lavorazione che devono essere provviste di un forte indice di idoneità alla sostanza del pensiero, come la ceramica Raku che per prima l’ha accompagnata nel passaggio dalla biologia all’arte.
Ma vorremmo, per un’ipotesi di campo e per assumere una distanza più neutrale, spostarci su un altro fronte d’osservazione, un luogo più interno all’arte contemporanea e provare a considerare da quel punto di vista il lavoro di Ariela.
Acque e terre emerse evocate nelle sue opere, suggeriscono un luogo situato al lato opposto della parabola artistica, sulla linea di confine della Land Art. Quella tendenza fece della natura del pianeta il campo d’azione prediletto: l’acqua e la terra, lo spazio e il tempo erano reali e l’azione diretta. La partita tra la misura dell’uomo e quella della natura si giocava tutta in esterni, nello spazio del pianeta terra dove l’artista si trasformava in un procuratore di reazioni impreviste che intendevano restituire al mondo naturale una perduta grandiosità, unica, potente, più potente dell’uomo che l’ha dominata. Nella Land Art la natura era reale e affrontata su scala planetaria; l’opera un segno che si inseriva, che interferiva, che reclamava appartenenza, intimità intrusiva pur conservando l’aura dell’unicum, in verità non mai integrabile. Il tempo dell’uomo e dei suoi interventi rimaneva altro, differente, da quello della natura anche se a essa affidava la sua opera. In Ariela accade l’opposto. Con materie manipolabili costruisce delle forme che evocano elementi, fenomeni, corpi, movimenti della Grande Madre. L’artista rimane nel solco della rappresentazione ma il carattere della mutazione del pensiero che immagina, mentre genera in forma materiale, possiede gli stessi requisiti di devozione e di appartenenza, di fascinazione e amor panico che ha informato tutti gli artisti che si sono posti davanti all’enormità della Natura: dal Sublime romantico alla Land Art per l’appunto. Nella serie che l’accompagna dagli anni Novanta Percorsi, vi è un’idea di visione perpendicolare presa da un piano stellare: dalle tre versioni di Dall’alto del 1994 a Gange Percorsi VI del 2006, si sviluppa una sorta di vedutismo spaziale che elabora sintesi di percezione irreali. Queste appaiono come composizioni astratte ma indissolubilmente legate alla germinazione intellettuale, fondata su base biologica, che le ha generate. Ecco dunque che la “distanza”, da intendersi come fattore di sintesi, diventa motore di un’estetica compositiva sospesa tra il reale e l’immaginario, all’interno di un processo creativo che sembra soggetto alla tentazione d’inabissarsi. Due lavori ci sembrano particolarmente significativi: Esplosione del 1998 e Pensiero femminile del 2004. Come ha ben visto Adachiara Zevi in Esplosione la costituzione della materia organica, “cellule e viscere”, in precedenza affondati nell’indistinto, “ora si riscattano, reagiscono, recuperano il consueto fondo nero” e al loro interno, come al fondo di piccoli crateri esplosi, compare la superficie specchiante. Dunque accanto alla metafora concreta dei movimenti generativi della materia organica, compare l’inesorabile variante del rispecchiamento, dell’oggettività. Compare l’Io, volto e sguardo diretto. Le due rive si uniscono: la forma espressiva offerta alle sensibilità altrui e l’identità personale, privata, tenuta in serbo come fonte per ulteriori indagini e percorsi di senso. Da questo punto di vista Pensiero femminile del 2004 appare come un’opera cardinale. Intuizione felice è la spazializzazione e la materializza- zione dell’elemento acquoreo attraverso l’uso dello specchio, spazio del blu e degli effetti argentei, espressione concreta del vuoto come spazio totale e luminoso nel quale oscillano sospese delle forme lucenti in terracotta. La struttura tridimensionale rimanda alla segmentazione e alla moltiplicazione dei solidi d’impronta concettuale e minimalista. Pensiero femminile è una specie di manifesto, non solo per il suo contenuto, ma anche perché l’artista mostra di muoversi su un terreno che possiede certe rigidità di materia e di profilo oggettuale, unite a una morbidezza di andamenti, a una leggerezza di quote che sembrano veramente unire posizioni opposte, convocarle e armonizzarle in una dimensione di visionarietà indecifrabile, dove si rende ancor più esplicita l’idea di un’astrazione biologica. La chiave simbolica di lettura rimanda alla combinazione fiera e misteriosa contenuta nel titolo, che tuttavia rimane inaccessibile ad una lettura pedante. Da quel crogiolo d’universo geometricamente impalcato, la ricerca di Ariela si fa più mirata nei confronti dell’acqua. Per la Land Art l’acqua era un elemento che apparteneva ad una dimensione macroscopica: era acqua di laghi, fiumi e oceani, così come la terra era monte, isola, deserto. L’acqua viene considerata da Ariela non come elemento in sé, ma come rappresentazione plastica delle sue manifestazioni, delle sue performance fenomeniche come possiamo vedere nelle opere in silicone del 2005: l’acqua è forma in sé, senza recipienti né argini per contenerla. Potenza primigenia, per sua stessa natura in continuo fluire che, nel pensiero e nelle mani dell’artista, diventa forma finita, fermata, formata e rappresentata. L’originalità del lavoro di Ariela sta proprio in questo progetto, nella volontà, persino nell’improntitudine di dare forma finita all’elemento mobile per eccellenza che, pur solidificando, mantiene l’illusione di potenza dinamica e inafferrabile. Una mimesi impossibile, una vera sfida per un’artista-biologa dotata della fierezza del creatore che si misura con l’impossibile: una scommessa che solo gli artisti e gli scienziati possono permettersi.
All’acqua come forma tridimensionale autonoma si contrappone l’acqua come superficie che per mostrarsi deve confinarsi, situarsi entro l’abbraccio della terra così come si configura nella serie Acque quiete del 2006. Quest’acqua è ferma, è immagine, illusione visiva bidimensionale, non possiede più l’impeto della provocazione oggettuale, della finzione radicale. Sullo sfondo vi è sempre l’aspirazione alla dismisura, alla scala planetaria, alla visione satellitare. Ma, a differenza degli artisti della Land Art, Ariela intende penetrare nelle fibre di quelle tavole planetarie, al punto che la dismisura si rivela essere un focus, la grandiosità, ingrandimento. Quella natura che diventava “galleria d’arte” per gli artisti della Land, in Ariela si interiorizza completamente, entra nel cavo del suo essere. Il processo di confinamento dell’acqua fa entrare in gioco l’increspatura ruvida, il tema della crosta rugosa che della terra è motivo tettonico e visivo. Il cretto in stucco riporta repentinamente il pianeta nel quadro e fa apparire con ogni evidenza ciò che sinora era rimasto in secondo piano per lasciare libero campo alle suggestioni visive: la natura in Ariela è artificio, è simulazione plastica, è estetica delle materie. Tale processo di distillazione formale culmina in Acque.Cristalli del 2006, folgorazione comune al tempo di Masaru Emoto, ma che Ariela precipita in un increspato mare di piombo dandone una versione perfettamente ambigua, così come dev’essere nello specifico della funzione estetica dell’opera. Su questa linea di ricerca si situano le forme monocrome tridimensionali a parete dal titolo Ombre di luce. La vita. I titoli di ogni singolo lavoro evocano stati dell’acqua: Pioggia, Gelo, Gorgo, Acque mosse, Acque calme, Aria, Cascata.
La superficie che si contrae corrugata, increspata, grinzosa è un topos dell’arte che va dall’evocazione di sipari teatrali nei dipinti barocchi, a veli, manti e sudari di figure mitologiche e allegoriche sino agli ingessati drappeggi dei dipinti metafisici e agli Achromes di Manzoni. La tela che si contrae ha a che fare con la rivelazione, con il ritrarsi di una copertura che mostra qualcosa che prima era nascosto, e che ora appare, si enuncia, si materializza quando cala il velo che la ricopriva. Ombre di luce si presentano come dei quadri, dei telai geometrici su cui poggia la consapevolezza della rappresentazione, della tavola dimostrativa. La cornice ribadisce questa condizione che fa da schermo al disvelamento: l’oggetto della rivelazione sono le forme degli stati dell’acqua che acquistano evidenza plastica nella lightness di una materia sublimata, nella trasparenza della luce sopra la luce in una veste di assoluta levità materica.

 

Giacomo Belloni
Critico e storico dell’arte

Connessioni
CONNESSIONI. Mettere in collegamento, assemblare elementi divergenti in una rete pulsante di intenzioni comuni allo scopo di far interagire tra loro insiemi complessi di eterogeneità. Articolare relazioni, avvicinare singole unità apparentemente lontane, sia per distanza fisica che concettuale. Si è in connessione quando si comunica, quando si è in grado di interagire attraverso sistemi strutturati con il fine ultimo di condividere informazioni. LINGUAGGI. Ariela non è mai interessata all’utilizzo di una lingua specifica, ad un sistema preconfezionato di segni di senso che, nell’utilizzo comune, estrinsecherebbero solamente significati codificati. La sua ricerca si spinge oltre la langue; preleva da questa solamente i sintagmi che stanno alla base della costruzione simbolica, ancor prima che si consolidino in sistema espressivo definitivo, in strutture. Ariela va oltre il lessico comune, eliminando da questo l’intero sistema dei legami posticci, confusi e devianti, tipici dei costrutti culturali di riferimento, per provare ad arrivare direttamente alla radice del fonema, laddove questo è ancora soltanto espressione istintiva del senso, ancor prima che si esteriorizzi, anche solo come suono. Per far ciò non ne sacrifica la radice culturale, tantomeno la sua storicità perché considera questi due valori irrinunciabili e insostituibili per dare valore ed evidenza all’ambito che lo esprime. Lei li vuole comunque contestualizzare per riuscire a dare un punto di partenza utile alla lettura dell’opera e alla sua intenzione creativa. Il lavoro di Ariela intende ripulire il segno da tutte le costruzioni non necessarie; nessun orpello, nessuna inutile decorazione, per cercare di risalire direttamente all’origine del concetto primario dell’espressione, prelevandolo intenzionalmente dal suo contesto, lasciando però traccia della sua peculiarità. Ecco perché la sua opera aspira a essere il luogo dell’esperienza; un luogo da non contemplare mai nella sua apparente staticità ma da fruire nello scorrere di una temporalità che si srotola parallelamente alla visione che la percorre, luogo che ripropone le specificità e la ricchezza del contesto che ne produce il segno. Opera intesa come un signifiant capace di esteriorizzare il suo signifié, senza distinzione alcuna tra concetto puro e aspetto tangibile. Opera intesa come il luogo ove si costituisce il linguaggio, un work in progress dell’unico strumento capace di creare connessioni, presupposto di base per la comunicazione tra le parti, tra le singole unità, e sempre nella consapevolezza di mantenersi autonoma e indipendente, e mai completa se separata dall’intero sistema interrelazionale. Comunico quindi esisto, e con me l’intera collettività alla quale appartengo, collegata in una rete collettiva per merito di un incessante scambio d’informazioni, sinapsi che, sempre più articolate si conformano alla molteplicità ed alla varietà dei singoli elementi. Perchécomunicare vuol dire costruire legami – anche temporanei – in grado di sostenere l’intero sistema di connessioni, forte della diversità dei singoli componenti, fondata sul valore della differenza. Lessemi uniti tra loro con l’intento di elaborare nuovi, inattesi e inesplorati valori, sacrificati nell’individualità ma con il proposito di trovare nuove forme e nuovi paradigmi comuni. Singoli elementi che si influenzano l’un l’altro, reciprocamente, ora in un modo ora in un altro, come in una catena ramificata, come in una rete neuronale che si autodefinisce in un’essenza plastica in repentina evoluzione, che esiste nell’unità del tempo e dello spazio. Frasi, parole, immagini, strutture che si intersecano quasi casualmente, in una sorta dicadavre exquis, per autoassemblarsi in completa autonomia così da lasciar emergere sorprendenti forme che si modificano ogni volta che si gira pagina, conservando del foglio precedente solamente un ricordo leggero ma determinante per lasciar traccia della singolarità e per ricordare che la forma definitiva è il risultato di un lavoro comune, interagente, in connessione perenne, e mai dell’azione di un singolo elemento. Le parole che meglio declinano le connessioni di Ariela sono comunità e comunicazione. La postmodernità pretende messaggi chiari, scremati dall’inutilità di un decorativo banale, messaggi capaci di arrivare all’istante a destinazione di chi li riceve. Ciò è possibile solamente attraverso l’utilizzo di un linguaggio universale in grado di recepire queste connessioni. Se il modernismo nell’arte si basa sui concetti di autoreferenzialità e autoriflessività, le opere di Ariela tendono ad essere postmoderne grazie a quel suo incessante sperimentare uno sconfinamento culturale, con l’intento di uscire dalla chiusura del sistema isolato. Comunicare, connettere, vuol dire per lei trovare una radice unica, un comune denominatore, per divenire più forti nella consapevolezza che la complementarietà rafforzi la collettività, ed in arte possa esprimere la forma finale, definitiva.

Ariela Böhm: acqua senz’acqua, la forma fluida del tempo che scorre
Gran parte della ricerca artistica di Ariela Böhm è incentrata sull’acqua. L’acqua intesa come l’elemento primigenio che racchiude in sé verità che, se svelate, sono in grado di farci comprendere quella condizione invisibile che scorre in noi, che percepiamo solo in parti confuse senza riuscire a visualizzarne in maniera chiara un intero troppo complesso. È una simbiosi imprescindibile quella tra la fluidità dell’acqua e l’avanzare del tempo che ci condanna, istante dopo istante, a una finitudine inevitabile. Abbiamo bisogno di comprendere per sopravvivere alla paura del tempo che avanza verso un ignoto che ci terrorizza, e l’acqua racchiude in sé il significato di uno scorrere che a noi appare come una condanna innaturale. Sentiamo che dobbiamo provare a comprenderne i segreti per ritrovare l’equilibrio che abbiamo perso nel momento in cui abbiamo voluto far prevalere la ragione all’istinto. L’acqua è natura, quella vera, noi siamo natura dimenticata, lasciata a margine per colpa della presunzione di volerne sapere troppo di una complessità percepibile solo per piccole intuizioni. Ariela la immobilizza per poterla osservare lentamente, in quell’unica condizione d’irreale staticità in cui essa è in grado di rivelarsi. Questo perché nella sua irrequietezza l’acqua è più veloce della nostra capacità di focalizzarne l’essenza; ecco perché Ariela ne modifica lo status fisico – da fluido a solido – in modo da cristallizzarla a favore dello sguardo lento. Ne deve estrarre la verità immutabile e ontologica per riuscire a fissarla nell’opera. La stessa operazione creativa è laboriosa ed ha bisogno di tempi diluiti che normalmente non ci sono concessi. Ariela indaga l’acqua per prenderne in prestito le sensazioni fondanti, per costruirne artefatti simbolici che restituiscono all’osservatore le emozioni più intense, talmente inequivocabili da non poterne confondere il referente di partenza, anche se cambiato o stravolto. Perché non c’è vita senza acqua, essa è da sola metafora proprio dell’esistenza: è l’elemento primordiale da cui tutto comincia e a cui tutto fa ritorno. Generatrice, salvifica, purificatrice, è l’origine di tutto – liquido amniotico, culla materna. Essa porta con sé la memoria e, come Μνημοσύνη la trasmette integra nei tempi, in un lento e inarrestabile fluire che attraversa ogni istante della storia insieme al mistero del ricordo di una dimensione ideale e originaria. Ariela analizza l’acqua nel rispetto della sua volontà fluida, della sua costante mutabilità e della sua natura multiforme. La spreme come un frutto maturo per ricavarne solo poche gocce di succo determinanti per definirne la sola idea costitutiva: l’acqua senz’acqua. Nei suoi lavori infatti l’acqua non c’è più, sembra essere evaporata per lasciare posto al suo solo significato incarnato nelle pieghe di una materia differente, non più liquida ma solida, immobile e statica. Dell’acqua, ne rimane sempre comunque forte la presenza, come se avesse lasciato in eredità la sola idea di se stessa: l’acqua senz’acqua, principio del principio, ἀλήθεια che rimane impressa nella memoria di chi ne è alla ricerca, sigillata e declinata nelle infinite possibilità rivelatrici dell’opera. L’acqua senz’acqua è la pura forma dell’essenza che, come un’anima in trasmigrazione, si concretizza ogni volta in una sostanza differente; ἀρχή che, come un trasformista, cambia abito per presentarsi rinnovato nelle sue possibilità espressive, adattandosi incessantemente alle aspettative di chi osserva. L’acqua è il pretesto per Ariela per emanciparsi da tutte le costrizioni limitanti: quando crea il delta di un fiume – un Percorso – non lo fa per rappresentarne uno in particolare ma tutti i fiumi, anche e soprattutto quelli che non esistono. Quando lavora sul Movimento vuole ricreare la sensazione comune a tutte le onde ma, prima di tutto, quelle che ancora devono formarsi per portare nuova energia innovatrice. Quando lavora con i ghiacci lo fa per dare una pausa ad un divenire irrefrenabile che, come l’acqua, corre in un perenne fluire; lo fa per fermarsi a riflettere se il nostro convulso esistere non ci stia facendo perdere di vista, ancora una volta, qualcosa di determinante. Ariela utilizza l’acqua come fosse il lessema di un linguaggio universale in grado di superare ogni incomunicabilità e, così come la scrittura – altro tema a lei molto caro – trasporta la memoria attraverso il tempo. La scrittura, così come l’acqua, è un medium che evolve la sua forma per recepire sempre più informazioni, per far proprie le complessità di una realtà in continua evoluzione, arricchendosi sempre più di nuove capacità. Proprio come la scrittura che si esprime attraverso elementi significativi, l’acqua, grazie al lavoro di Ariela, diviene struttura osservabile in grado di farci comprendere significati originari che sono tradotti dall’artista per una nostra comprensione immediata. www.giacomobelloni.com

 

Franco Bonilauri
Storico dell’arte e della fotografia

La scelta di Ariela Böhm per  questa mostra che vede la partecipazione di diversi artisti appartenenti entrambi  alle tre fedi abramitiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) ha sicuramente un forte significato perché è tra le poche artiste che da sempre lavora, con forte impegno,  intorno al tema della propria appartenenza religiosa e culturale in un contesto, come è quello odierno, in cui le tematiche  affrontate dagli artisti sono di tutt’altro genere. Eppure la storia dell’arte ci insegna che le più significative produzioni artistiche sono avvenute quando l’arte si identificava con la sfera religiosa a cominciare da quella classica greca-romana, per continuare per tutto il medioevo e per finire dopo il Rinascimento nell’epoca barocca con artisti quali Guido Reni e Caravaggio che si sono totalmente immersi nella spiritualità religiosa del loro tempo.
La Böhm senza dimenticare, in quanto ebrea,  di appartenere ad una minoranza, ma forse in virtù di tale contesto, ha maggiormente radicato ancora più il suo senso di appartenenza fino a spingerla a scavare nella più assoluta profondità  identitaria quale è la scrittura della sua tradizione, tra le più antiche e tra le poche  che ci sia pervenuta integra dall’antichità.  Ora, grazie ai padri fondatori di Israele, dal 1948 l’ebraico è ritornato ad essere  una lingua viva al pari di tutte le altre.
Ariela con la giusta intuizione di utilizzare una delle tecniche della ceramica tra le più essenziali  e usata da diversi secoli in Giappone, quale è la raku, ricostruisce tavole informe in cui inserisce frammenti testuali in ebraico presi dai libri sacri della sua tradizione religiosa.  I suoi frammenti, eleganti, curati in ogni dettaglio con somma maestria, sembrano riprodurre quelle tavolette in lingua ebraica apparse agli archeologi dalla fine del XIX secolo e che hanno consentito di capire l’antica provenienza  di questa scrittura iscrivibile  a più di 3000 anni fa e comunque in contemporanea alla scrittura geroglifica e cuneiforme.
Pochissimi  artisti si sono cimentati sul tema della scrittura e della lingua e ad eccezione di alcuni del secolo scorso, ma che non possono essere confrontati con questo lavoro perché l’inserimento di brevi testi nelle loro opere aveva principalmente un senso più espressivo che non identitario; tra gli altri possiamo ricordare,  Robert Rauschenberg, Roy Lichtenstein, Andy Wahrol e in Italia principalmente Mimmo Rotella e  Mario Schifano, compreso Emilio Isgrò che però ne fa un oso di sottrazione con le sue note cancellazioni. Diversamente Ariela Böhm esalta l’alfabeto ebraico sia quando esso è testuale sia quando le lettere si muovono in libertà come ama spesso fare negli ultimi video. Per lei l’ebraico è la metafora della sua storia e della sua vita che, in quanto minoranza e chissà per quali arcani misteri, ha dovuto, ingiustificatamente, subire nei secoli, persecuzioni, segregazioni e per ultimo il più feroce dei genocidi: la Shoah.
Le sue opere sono delle testimonianze forti di chi vuole ancora fare sentire la voce profonda della vita, dell’anima che pulsa fin  dalla storia antica, dove il grido della sofferenza di tanti, specialmente del secolo scorso, sembrerebbe offuscare la lucidità della mente, quando invece leggendo i brani inseriti nelle sue opere,  sentiamo una voce parlare di clemenza,  di speranza e di amore, di quell’amore fraterno che  va oltre  la dualità e che avvolge uomini e donne, di tutte le genti, sotto un unico cielo.

 

Rita Levi Montalcini
Premio Nobel per la Medicina

Ariela Böhm ha ereditato dai genitori straordinarie attitudini, scientifiche e artistiche. L’attività scientifica e quella artistica sono tra i più pregevoli prodotti che caratterizzano quel formidabile complesso di sistemi e circuiti neuronali neocorticali, tipici del cervello dell’Homo sapiens. L’espressione scientifica può manifestarsi sin dal suo primo apparire, perfetta come Minerva nell’atto di emergere dal cervello di Giove o svelare nella sua incompletezza il lungo travaglio dell’atto creativo. Una differenza essenziale tra le creazioni scientifiche ed artistiche è che queste ultime sono la risultante dell’attività creativa di un singolo individuo. Al contrario l’attività scientifica pur avendo origine nel felice intuito di un singolo individuo diventa immediatamente un’opera collegiale che va incontro ad estensione mano a mano che gli studi portano a nuove conoscenze. L’attività artistica di Ariela Böhm è ispirata alla storia del pensiero umano. L’opera “All’alba della scrittura” richiama alla nostra mente le tavole bibliche. Attraverso i segni incisi l’artista parla un linguaggio cifrato che spetta all’osservatore di interpretare. Differente è il significato dell’opera “Riflessioni sulla convivenza” che offre un’interpretazione delle origini dell’attività umana dal suo arcaico apparire, alla complessa interazione di quella attuale del terzo millennio. Questa bellissima opera, realizzata con l’audace connubio di elementi diversi, legno e terracotta, in armonica contrapposizione, rappresenta simbolicamente l’intrecciarsi di attività mentali, quali la creatività scientifica ed artistica.

 

Elina Lo Voi
Regista

Le pagine di Ariela Böhm devono essere viste insieme, tutte insieme. Quella arricciata (sottoposta a quale incendio?) e quella panciuta (per l’umidità di quale sotterraneo in cui è rimasta celata?) quella bucata e quella quasi accartocciata da una mano incurante. Tracce della storia e dunque logore, scure, ma illuminate dai brandelli residui d’uno splendore perduto (lo smalto che resiste), tracce d’una venerazione antica perché incarnavano la fatica e la grandezza dell’uomo nella necessità di “creare” il passato rendendolo ripercorribile all’infinito con la scrittura. Vedendole tutte insieme, però, affiora un certo senso di inquietudine, come se ci fosse un particolare che non torna, qualcosa di individuabile solo da uno sguardo puntuto, qualcosa che riguarda la loro fattura. Le lettere sono in rilievo. Ma quando s’incide una lastra, si incide, per l’appunto. Non ci si ritrova una lettera tornita, perfetta. Su una copia inchiostrata, le lettere non sono in rilievo. Lo scarto, la poesia sembra che in questo trovi la sua chiave. La scelta di una fattura all’incontrario, in rilievo, dà la sensazione forte di trovarsi davvero davanti all’archetipo originario. La parola incisa sulla pietra è incisa, come nelle tavole di Mosè, ed è dura, come gli strumenti impongono; la parola morbida è la parola a pennello, come nell’alfabeto arabo, o quello cinese, o quello giapponese. Sulla pietra di Ariela la parola è miracolosamente morbida quasi fosse materiale vivente, biologico. Ed anche questo è inquietante. Come se l’artista avesse ritrovato il significato organico delle cose nel momento in cui le trasforma in parola, le nomina, e quindi le ricrea, se ne fa artefice per la prima volta. E’ un’autentica operazione magica quella che vediamo, ed è forse per questo che riesce così intensa e integrata con l’intelletto; perché gli albori della civiltà sono gli albori dell’Uomo e di ognuno di noi, e per ciascuno tanto più vicini quanto più si conserva la memoria e la volontà di sentirsi parte di una comunità umana. Queste opere contengono insieme una grande speranza e una grande visione; riavvicinandoci alla fondazione di noi stessi, sembra che dicano che una fondazione ancora una volta è possibile, che la speranza non è perduta, e che nell’umanità c’è davvero il seme del divino.

 

Gianluca Marziani
Critico/curatore di arte contemporanea

Panoramiche sulla pelle del mondo
Panoramica aerea, cinepresa virtuale di chi guarderebbe dal piccolo finestrino di un velivolo a quota media: sotto c’è il paesaggio, sopra spuntano occhi che indagano e scandagliano, alla distanza in cui terraferma e mare dialogano come le parti incastrate di Alberto Burri o i fasci cromatici di Nicolas De Staël e Carlo Mattioli. La Terra dalle distanze aeree ci immerge nel paradiso di luoghi che si fanno continuamente pittura astratta, nel preciso confine in cui la cosa materiale diventa puro informe, dove il concreto si astrae per rimanere entità sì fisica ma impalpabile nelle sue mille specificità interne. Masse uniche fatte di variazioni minime, superfici più o meno continue al cui interno nervature e frangenti creano la variabile che destruttura le masse, proprio come in pittura le pennellate seguono il ritmo nervoso della mano che prende stimoli da cervello e cuore.
Ecco tre cicli di Ariela Böhm, nati in un arco di tempo che sembra dare il senso della continuità e dello scandaglio progressivo attraverso i materiali sopra una simile idea: il suo mondo è allora visto da ideali altezze a campo lungo, proprio come se si fosse su quel fatidico sedile di un aereo in volo a quota media. Da lassù, nella potenzialità di uno sguardo critico che può divagare a serio e non delirante piacimento, si costruisce il campo perimetrato di questa giovane artista romana, stimolata dal potere conturbante dei materiali sperimentabili: silicone per le onde del mare, stucco per una terra in contrasto col blu pittorico del mare, sabbia per un’altra visione di terre emerse circondate dall’azzurro variabile dell’acqua.
Il silicone segue ondulazioni parallele, ora concentriche ora più filiformi a seconda del ritmo ondoso che si è voluto ricreare; un mare di luci e strani riflessi, musicale per progressione di forme seriali, più o meno trasparente ma sempre ad espandersi su una superficie che solo poche volte lascia uscire parti di blu pittorico.
Negli stucchi, invece, il blu dipinto assume una funzione dialettica con le parti bianche a rilievo variabile: l’occhio immagina subito la visione aerea, ancor prima dell’ipotesi primaria di un puro gioco tra forme e colori; si pensa al territorio come “carne del pianeta” e all’acqua come “pelle” di una Terra che ora vive di sfioramenti senza alcuna intromissione territoriale: “carne” e “pelle” sono davanti a noi, perfette per convivere ma in modo separato, come parti di uno stesso corpo (la Terra) dove interno ed esterno appartengono alla stessa dimensione apparente.
Le sabbie, prima tappa di questo ciclo finora in tre tempi, vivono sul principio degli stucchi ma con una visione più panoramica del contesto terrestre: sono parti materiche dai toni sfumanti che si dimensionano su ampie zone acquatiche, quasi a dare uno spaccato variabile dei continenti caldi.
Gli stucchi della Böhm, ripensando ai rapporti con le forme sabbiose, guidano la curiosità mentale verso terre meno mediterranee, dalle parti di poli estremi del nostro pianeta ma anche, lasciandoci guidare dalla libertà interiore, verso strambe montagne di sale a forma di iceberg o tra formazioni estese di sabbia bianchissima a ridosso dell’acqua marina.
Fondamentale rimane la libertà ondivaga di scegliere un territorio e farlo proprio, pensando ad un luogo che potrebbe essere la nostra zona vista dagli occhi del primo gabbiano che sorvola il mondo al di sopra dei nostri capelli: noi sempre laggiù, impossibilitati a vedere dall’alto senza supporti tecnologici; la nostra mente con noi oppure in alto, tra i luoghi senza pavimento da cui rendere le pure forme ciò che più ci interessa inventare.

 

Anna Nassisi
Critica e storica dell’arte

La forma del pensiero
Se togliamo all’opera il carattere di superficie dipinta e le restituiamo quello originario di composizione visibile, o di visione composta, risulterà chiaro quello che intende Ariela quando attribuisce ai lavori qui in mostra il carattere di generatori di pensiero. Ariela chiama gli spettatori a entrare nell’ordine che è dato alle opere nello spazio espositivo e al tempo stesso nel reticolo segreto attraverso il quale le opere che occupano tale spazio si osservano a distanza e inter-agiscono. Tutto ciò diviene possibile solo attraverso la griglia di uno sguardo, di una attenzione, di un linguaggio. Soltanto nelle caselle bianche di tale quadrettatura le opere si manifestano come già presenti in silenziosa attesa di essere “guardate”. È in esso, nell’atto dello “sguardo” che lo spettatore scopre che vi sono possibilità infinite nel gioco di “visibile e invisibile” (v. Merleau-Ponty), quasi che scostandosi dagli ordini empirici che i suoi codici prescrivono, lo sguardo privasse le opere della loro caratteristica originaria di essere solo contenuti in un contenitore – lo spazio espositivo – e cogliesse l’in-dicibile: le opere così si lasciano guardare e nel contempo attraversare: gli ordini possibili della visione diventano molteplici. Il gruppo di opere che fanno parte del nucleo finale della produzione dell’artista ben si collocano in tale frame, in tale provocazione di opere neuroniche che vogliono stimolare, far crescere, mettere in moto il carattere insieme fisico e emotivo dei neuroni del nostro pensiero.
Una creatività che sollecita e stimola nuova creatività: quella primigenia di Ariela artista e quella, connessa ad essa, dello spettatore che guarda le opere. I lavori collocati nello spazio espositivo, ben lungi dall’essere contenuti di un contenitore, consentono così di svelare l’in-dicibile: le opere si lasciano guardare e nel contempo attraversare. Esiste quindi tra lo sguardo e il progetto installativo una ragione mediana che può essere definita esperienza “nuda” dell’ordine.
La nostra percezione si muove in questo spazio d’ordine e coglie le differenze crescenti dei diversi “punti di vista”. Lo spazio accoglie, si dilata interagisce con i molteplici segni impressi sul bronzo, sul vetro, sulla tela, nei video. Un dialogo muto tra spettatore e opera che vuole entrare nei meandri irriducibili al tempo della creazione dell’opera stessa. La struttura compositiva della mostra nasce da una archeologica ed insieme evocativa stratificazione del linguaggio e la superficie delle opere rimanda, nelle sue geometrie, a un incontro/confronto tra la ricerca di senso che l’artista cerca di mostrare con un uso molteplice di materiali, una ricerca del suo proprio senso che nell’entrare nei meandri del pensiero creativo individuale incontra la memoria e la creatività del mondo. Come ben sottolinea Walter Benjamin in Angelus Novus: “la storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’”adesso”. Dove il passato è carico di questo esplosivo, la ricerca materialistica accosta la miccia al “continuum” della storia. Con questo procedimento essa ha in mente di far saltare fuori dal continuum l’epoca (e così fa saltare fuori dall’epoca la vita di un uomo e dall’opera di una vita un’opera). Il risultato di questo procedimento consiste in ciò, che nell’opera è conservata e custodita l’opera di una vita, nell’opera di una vita l’epoca, e nell’epoca l’intero decorso storico”… Il frutto nutriente di ciò che viene compreso storicamente ha al suo interno come seme prezioso (fecondo) … il tempo.
Le “orme” di Ariela (in Recisione impossibile) ci guidano in questo incontro/confronto. Pittura, scultura e scrittura sono componenti fondamentali del linguaggio dell’arte di Ariela. L’alfabeto di antichi linguaggi diviene forma-pensiero, forma del pensiero, basamento sul quale l’archeologica traccia del tempo/epoca consente a noi contemporanei di comprendere l’adesso, il presente sia collettivo che individuale. E solo grazie a questo presente quale risulta dalla complessità di un passato/memoria siamo in grado di ripercorrere a ritroso le epoche, in un gioco dialettico di presente – passato – presente – futuro.
Spazio storico e spazio emotivo si innestano in una dialettica che mediante il linguaggio dell’arte impone una riflessione sulle cesure tra le epoche e salvano l’umanità e l’uomo dall’orrore che l’Angelo della storia accoglie nei suoi occhi atterriti. Il passato non può essere un ammasso di macerie né può diventarlo grazie alla furia omicida di chi pensa che distruggere ciò che l’umanità ha prodotto nei secoli sia solo un impaccio del quale liberarsi: nelle “opere del passato è conservata e custodita l’opera di una vita, l’epoca, e nell’epoca l’intero decorso storico”.
Il pensiero che diviene forma è una possibilità che sgorga dai meandri neuronici fisici ed emotivi della creatività. Il processo di creazione dell’opera fa parte del reale e nello stesso tempo se ne distacca. L’opera ci provoca, richiama lo sguardo e vive in questo rispecchiamento la duplicità del sé e dell’altro nella sua pregnante estraneità.
Ma l’occhio umano, ci suggerisce Ariela, può e vuole spingersi aldilà dell’immagine visibile: è in esso, nell’atto dello sguardo, che lo spettatore scopre che vi sono infinite possibilità di andare aldilà del reticolo che avvolge la realtà, pietra dura, marmorea ma vera del ciclo Invito 1/12 .
Acque. Movimento travolgono lo sguardo nel loro ritmo dinamico, nel quale luce, ombra e colore definiscono l’immensità sino alle vertigine di un mare percorso da vortici e maestose onde che si aprono per accoglierci, travolgerci sino allo stordimento e poi liberare lentamente il tumulto del cuore finalmente acquietato. Il percorso visivo tra le opere in catalogo ci conduce alla scrittura/scultura di pannelli di legno e terracotta Raku, All’alba della scrittura, dove le antiche lingue del mondo, l’ebraico, il siriaco, l’arabo e i misteriosi segni cuneiformi ci invitano al cimento, forme archetipiche che inducono a cercare un terreno di confronto in un mondo che ha sospeso ogni forma di dialogo e confronto. L’opera di Ariela dal lunghissimo titolo che suggerisce già una risposta Che la memoria di ciò che è stato si fonda con la materia che ospita il nostro pensiero è quasi liberatoria. Si è così: la memoria “si fonda” e viene ospitata nel nostro pensiero che nello stesso momento riflette su di essa sia in quanto memoria che risulta dal sommarsi delle singole memorie degli uomini.
Con la grandiosa installazione Torre di Babele siamo ancora una volta di fronte alla presa di possesso della terra promessa e nello stesso tempo alla difficoltà di rompere vecchi e nuovi conflitti. Il linguaggio dell’arte di Ariela si carica di attese, di memoria, di sogno. L’opera  è una unità geometrica, realizzata in ceramica Raku, mattoncini soprapposti che recano   in rilievo le iscrizioni di lingue arcaiche, parzialmente velate con uno smalto metallico che riflette la luce del sole, ciascuno con un insieme di segni in rapporto tra loro mediante connessioni molteplici di forze-tensioni. La struttura aperta dell’opera si apre alla speranza di un linguaggio plurale che più che dannare l’uomo gli consente di confrontarsi con linguaggi diversi del vicino oriente. I figli di Sem sparsi per il mondo richiedono oggi un incontro che li sottragga al crollo titanico della biblica Torre. A una prima lettura ogni pannello-lettera  è un elemento, un singolo individuo/nazione con la propria storia e la propria cultura. A una visione d’insieme la somma degli elementi diviene forma che trova una unità circolare quasi prismatica del molteplice. Una ricerca di equilibrio, di armonia leonardesca che viene incrinata da un Crollo. Un crollo inevitabile, irreparabile? No, sembra suggerire l’artista: è proprio tale disequilibrio permea di sé le ultime opere in mostra e nel contempo una ricerca di armonia: dove siamo, con chi interagiamo, è possibile adottare il linguaggio della misura, ritrovare l’armonia senza correre il rischio della dis-misura? L’avvolgente suggerimento neuronico di opere quali Qualità del pensiero: risveglio, Qualità del pensiero: giorno, Qualità del pensiero: declino, ed Esplosione ci dicono che solo il risveglio, la crescita intellettuale della nostra immaginazione può metterci al riparo dal declino, da un declino sia cognitivo individuale che da un declino storico dell’umanità.
Il lavoro di Ariela si confronta così con il mondo antico e nuovo, l’adesso, il presente e il globale e ci parla di possibilità di ricostruzione del mondo, di declino individuale e collettivo, di tempeste del cuore e della mente e apre così al nostro futuro. L’opera per l’artista è una lettura individuale del reale che attraverso l’organizzazione di segni diviene linguaggio che parla a/e/di quel reale che rappresenta. È dal fondo della dilatazione semantica operata dalla dialettica delle interpretazioni che emerge il momento privilegiato del dettaglio, vengono in luce connessioni inedite, possibilità interpretative del reale, luce che si intravede dalla notte del tempo. L’artista va dentro alle cose, nelle pieghe della storia, svela le linee di frattura e con un atto conoscitivo inedito rende mediante l’immagine/opera ciò che di nuovo la figurabilità, la rappresentabilità di quella soglia, di quel crinale, di quella linea di frattura consente. L’artista Ariela con la sua potente capacità creativa ci fornisce una lettura del mondo pre-dittiva, ci svela la nascosta genealogia del significato.
Questa mostra per l’importanza anche numerica delle opere esposte e il catalogo consentono a noi spettatori di poterci confrontare con l’articolato corpus del suo lavoro, dove accanto a pittura, scultura, incisione  e lavori in terracotta Raku figurano con altrettanta forza video di intensa poeticità. È questa la lezione di estetica che l’artista ci offre. Ed è con questo spirito che ho cercato di ricostruire in grandi linee il suo itinerario anche con opere che non appaiono in questa mostra – All’Alba della Scrittura, Torre di Babele, Crollo – ma fanno parte del percorso dell’artista e visibili in catalogo.
Concludo con una citazione ripresa da un intervento di Ariela Böhm in un seminario tenutosi al Macro Testaccio di Roma sul tema della Genesi dell’opera d’arte, da me organizzato. Scrive Ariela: “il percorso creativo varia di volta in volta ma, generalmente, inizia con un’immagine, una visione poco definita che va precisandosi via via che la analizzo o, a volte, semplicemente man mano che passa il tempo. Ho parlato di immagine, ma può anche trattarsi di un’idea che non ha ancora una componente visiva o essere semplicemente una sensazione o un’emozione che voglio suscitare nell’osservatore… ma non ho ancora idea di come fare. La fase di definizione può anche essere molto lunga […] per poi sfociare in una fase “operativa”. Questa consiste essenzialmente nella progetta- zione, quindi definizione delle dimensioni, materiale, tecnica, aspetto finale dell’opera. Dal momento che i miei lavori non sono  di tipo gestuale o istintivo generalmente richiedono un’accurata fase progettuale in cui affronto e tento di risolvere anche le eventuali difficoltà tecniche”.
L’artista nel suo percorso creativo non ha mai smesso di progettare. Il primo uomo, scrive Argan, ha costruito un progetto per l’avvenire da una esperienza passata. Dai minimi al massimo il comportamento storico si sviluppa in un arco temporale che va dall’esperienza al progetto: ciò che è oggetto nel presente è stato progetto nel passato ed è condizione dell’avvenire.

 

Francesco Santaniello
Critico d’arte

“Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore.” A. De Saint-Exupéry (Il Piccolo principe)
Anche per Ariela Böhm fare arte significa indagare le leggi che regolano l’universo: sia il macrocosmo galattico sia il microcosmo dell’essere umano. La serie “Ombre di luce” costituisce una sorta di sperimentazione in vitro per visualizzare un paradosso, ovvero la profondità della trasparenza e la relativa possibilità di generare immagini con essa. In queste opere è come se Ariela avesse ingigantito quei vetrini tante volte osservati sotto le lenti dei microscopi quando era una ricercatrice biologa dell’equipe di Rita Levi Montalcini. Sotto le diafane lastre di vetro, se adeguatamente illuminate, si formano le sottili trame filiformi delle connessioni neuronali (trine arabescate per i profani di scienze) o si visualizzano gli attimi iniziali di quel sublime mistero che è il concepimento di una vita umana. Nei lavori più recenti l’artista ha rappresentato i moti delle acque che è solita illustrare anche sulle tele, nelle quali mirabilmente il silicone inondato di luce si trasforma nella vaporosa spuma dei flutti marini. Gli Antichi ritenevano che fosse la mente a guidare l’anima, tenendo a bada ragione e passione. Ariela Böhm è uno scienziato che non ha esitato a seguire le ragioni del cuore scegliendo di dedicarsi interamente all’arte. Attraverso la sua ricerca artistica dimostra con chiarezza che, anche al di fuori dei laboratori, esistono vari modi per sondare i misteri e le possibilità cognitive umane, scoprire il funzionamento dei nostri sensi, dare forma ai fenomeni fisici. Del resto l’Arte è la sublimazione di ogni capacità umana.

 

Gabriele Simongini
Critico e storico dell’arte

Ariela Böhm e Rino Regoli: i misteri delle “ombre di luce”
In un magnifico racconto di Jorge Luis Borges intitolato “Le rovine circolari” il protagonista si impone un proposito soprannaturale: “voleva sognare un uomo: voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà”. Ma subito “comprese che l’impegno di modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il più arduo che possa assumere un uomo, anche se penetri tutti gli enigmi dell’ordine superiore e dell’inferiore: molto più arduo che tessere una corda di sabbia o monetare il vento senza volto”. In fin dei conti, mutatis mutandis, anche Ariela Böhm e Rino Regoli, ciascuno nel proprio ambito di ricerca e insieme nella tecnica da loro inventata delle “ombre di luce”, inseguono un obiettivo difficile, certamente non soprannaturale ma comunque assai impegnativo. Cercano di trasformare in materia visiva l’impalpabile splendore della luce, fonte di energia vitale e di perenne stupore. E non solo: nelle sue opere Ariela vuole dare immagine creativa alla struttura del pensiero o alle radici del linguaggio, mentre Rino ci invita – da ammirevole rabdomante della luce quale è – ad andare al di là delle apparenze o, meglio, a scoprire il mistero e i mille significati che vi si celano. Entrambi gli artisti lavorano e riflettono sulle “connessioni” ( parola particolarmente cara ad Ariela) che danno senso alla vita umana: da quelle neuronali a quelle etniche e religiose, fino a quella rete di relazioni armoniche che pervade la natura, come ci dimostra Rino, armato di pazienza e di fiducia nella forza del visibile. Ogni cosa è in relazione con innumerevoli altre, sembrano dirci i due artisti, ben al di là di tutti i luoghi comuni e le banalità che purtroppo stanno sempre più diventando la sostanza della nostra vita quotidiana, bombardata costantemente da immagini vuote che stanno inaridendo la nostra capacità immaginativa.  A dir la verità sia Ariela che Rino non partono mai dai sogni ma dalla realtà naturale e sociale. Lì, superando l’indifferenza che spesso vela tragicamente la nostra capacità di guardare, si possono scoprire i fenomeni più stupefacenti e al tempo stesso semplici. Così, in Rino, una nuvola ci rivela   il “Profilo di un dio triste”, oppure una gabbianella diventa cometa o, ancora, un’asettica rondella proietta l’ombra-luce di un fiore, non corrispondente per niente alla sua forma-madre e perciò sorprendente. In queste opere non c’è mai lo strapotere dell’ artificio elettronico ma solo l’attesa e la concentrazione di un artista che ha fede in ciò che può accadere quando ci si trova di fronte alla natura e alla vita, senza preconcetti e con una predisposizione sincera, umile e pura.  Al contempo in Ariela la crescita del pensiero è visualizzata nell’evocazione di reti neuronali che però richiamano anche le macchie di Rorshach, oppure il concetto stesso di convivenza pacifica e pur difficile si esprime, senza troppe spiegazioni verbali, nella sorprendente relazione creata dall’artista tra edera e terracotta, diventate quasi, nelle sue mani, un unico organismo naturale.  Ciò che distingue sia Ariela che Rino dalla scialba invasione di tanti pseudo-artisti oggi proliferanti è anche la capacità di far scaturire le proprie idee, con naturalezza, dalle stesse tecniche e materiali usati, così come l’acqua fuoriesce da una sorgente. Per le loro “ombre di luce” volevano una tecnica leggera ma necessariamente fondata su una base materiale e così l’hanno trovata e l’hanno trasformata in fonte di immagini invisibili e visibili al tempo stesso, secondo l’incidenza e l’intensità della luce. Del resto tutta la vera arte è opaca e trasparente, contemporaneamente: è limpida per l’osservatore che sa guardare ma impenetrabile per la moltitudine che ha gli occhi velati dalla banalità. Ritmi naturali ed “ecologici” (dal punto di vista dell’ambiente ma anche da quello della purezza etica e spirituale) muovono i passi creativi di Rino ed Ariela, nelle cui opere si identificano quasi perfettamente, in una sola unità, pensiero, intuizione, immaginazione, memoria e prassi tecnica.  E non a caso Ariela è esperta di Scienze Biologiche mentre Rino è un inesausto contemplatore della natura oltre che uno studioso dei fenomeni della visione e della percezione. Entrambi sono ammirevoli e mistici “scienziati” di un’arte fatta a misura d’uomo, quella in cui l’atto del vedere è anche fonte di conoscenza purificatoria e interiore. Così tanto Rino che Ariela potrebbero ben condividere quanto mirabilmente notava Rainer Maria Rilke: ” Io imparo a vedere. Non so perché tutto sembra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno  che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accadrà”.

 

Luciana Stegagno Picchio
Linguista e filologa

Fra le opere di Ariela Böhm privilegio quelle in cui l’impiego di nuovi materiali e di tecniche innovative tende al ricupero e alla riproposta di forme espressive proprie di momenti iniziali, inventivi, della storia dell’uomo. L’autrice le ha metaforicamente definite le pagine di terra, di fuoco e di luce da lei dedicate ai primordi della scrittura. Il loro supporto materico è costituito da terracotte a tecnica Raku che, con la luminosità corrusca di frammenti emersi da un passato remoto, si propongono quali elementi portanti, in fissazione seriale, di una singolare vicenda umana sub specie scripturae. E proprio l'”arcaicità”, artificialmente indotta in queste ceramiche, sembra costituire il necessario tramite fra scritte e supporti. La tecnica ceramistica adottata da Ariela è un’antica arte d’importazione cinese o coreana, affermatasi in Giappone fra il 1570 e il 1590 ad opera della celebrata dinastia dei Raku. Il tredicesimo maestro dei Raku è morto nel 1945, ma l’arte della terracotta che porta il loro nome è giunta fino a noi. In questo momento è privilegiata da artisti i quali, come Ariela, si riconoscono nell’imperfezione di materiali sconvolti nel loro processo di cottura da temperature altissime capaci di conferire al risultato ultimo l’inatteso di un “troppo” che ha spaccato e contorto ogni superficie, come dopo una estrema siccità o un evento sconvolgente. Su queste superfici martoriate, che escono dalla cottura in forme inaspettate solcate da incisioni, toscanissimi cretti di terre aride, annerite ai bordi arricciati come dopo un’esplosione atomica, le scritte appaiono a rilievo. Non sono cioè incise, in negativo, a ricordo di mosaiche tavole della legge, ma in positivo, come appunto nei sigilli. Conservano perciò un loro aurorale nitore ad affermare l’eternità della scrittura rispetto ai suoi supporti deperibili e contingenti. Che gli esercizi di scrittura di Ariela Böhm non rispondano a semplici intenti di ornamentalità decorativa è dimostrato, anche dal fatto che, fra gli esempi da lei prescelti, oltre a varie proposte di Lineare B, appaiono esempi di scritture assirie cuneiformi, di scrittura siriaca, palmirena e aramaica, provenienti da aree proprie o contigue a quel mondo ebraico che è uno dei poli del fare umano e artistico di questa scultrice.

 

Roberto Vacca
Scienziato e scrittore

Pindaro e altri scrissero frasi famose e banali sull’acqua: una sostanza che sembra semplice. Tutti sanno che la sua formula è H2O e che sulla terra senza acqua non c’è vita. Molti conoscono le leggi che ne governano pressione, portata e velocità. Richard Feynman ha scritto: “Il flusso dell’acqua ci affascina. Ricordiamo di aver giocato da bambini, nel bagno o in pozze fangose, con quella roba strana. Da adulti, guardiamo torrenti, cascate e vortici e questa sostanza ci sembra viva rispetto ai solidi. Proviamo a costruire dighe intellettuali per costringere i flussi d’acqua a essere spiegati dalle nostre leggi ed equazioni, ma l’acqua trova modi singolari di sfuggire a quelle dighe ideali e ai nostri tentativi di capirla.” Feynman descrive, poi, come si comportano l’acqua asciutta (considerata priva di viscosità) e quella bagnata che è viscosa e ha uno strato molecolare immobile aderente alla superficie dei solidi su cui scorre anche ad alta velocità. Se l’acqua fluisce per traiettorie laminari perde poca energia. Ne perde molta se il flusso è turbolento: talora sembra caotico e segue invece regolarità complesse, intricate, ripetitive. Un ricercatore francese sostenne che l’acqua ha memoria. Pare che i suoi esperimenti fossero truccati, ma secondo certi scienziati erano giusti. Non abbiamo esperienza diretta dello stato dell’acqua a grande profondità nel mare. Data la pressione, arriva a temperature molto più alte di 100°C senza bollire e ospita grandi quantità di batteri e di strana fauna da cui forse originò la vita senza intervento della sintesi clorofilliana. Le descrizioni del mondo, scientifiche o qualitative, servono a pochi fra noi per motivi professionali. Soddisfano il desiderio di cultura di molti. Nella mente di tutti evocano concetti, idee, sprazzi di coscienza, impressioni, moti dell’animo dai quali possiamo derivare progetti, sentimenti, pulsioni che ci spingono a fare, a pensare, a evolverci. Questi segnali entranti ci arrivano anche da altre fonti. Ci arrivano da strutture e da processi naturali che, però, molti di noi guardano senza capirli – come se fossero macchie di colore. Ci arrivano elaborati da artisti. Allora le cose sono più complesse e più interessanti. La natura che guardiamo è mediata da una mente che la trasforma usando materia prima che codifica con parole o con immagini o con suoni. Ariela usa immagini di acqua ferma o fluente o congelata. Non racconta storie, né formula teorie. Presenta il risultato finale delle forme e dei colori che hanno impressionato la sua mente. Le sue opere sono panorami o paesaggi mentali. Non ne se ne può parlare in termini generali. Si possono solo riferire le impressioni caso per caso. Le grandi onde oceaniche gonfie, con la cresta che appena accenna a rompere, mi evocano una sequenza che non serve riportare con frasi grammaticali: “non c’è un surfista sopra ma forse nessuno saprebbe scivolare su un’onda come questa che Ariela non ha calcolato perché l’ha sentita sotto le mani come se l’avesse creata lei e il fisico Bloombergen che studia onde elettromagnetiche e di luce ne saprebbe formulare l’equazione a occhio mentre una persona normale non penserebbe all’equazione né all’armonia della forma ma solo intuirebbe anche senza volerlo il rumore che produce e lo scroscio che sentirà chi la vede frangersi sulla riva e di che cosa è fatto questo oggetto lo può arguire solo un altro artista o un esperto di materiali e forse è del tutto irrilevante”. Il delta del Gange è un labirinto di canali e non è importante sapere che è fatto proprio così perché l’immagine è tratta da una ripresa satellitare. La reazione è prodotta da colori (falsi o veri non importa) e dalla scelta di quella struttura che genera in me considerazioni sulle reti e sulle connessioni di nodi e rami che li uniscono. Di nuovo, a me viene spontaneo pensare alla struttura statistica e formale di quella rete. Poi penso a questa artista, Ariela, che genera messaggi non univoci perché in persone diverse produrranno reazioni del tutto difformi. E penso a come si possono classificare le persone che guardano queste immagini. Alcuni possono percepire i fluidi e i cristalli di Ariela come motivi ornamentali. Altri come stimoli a percepire diversamente la natura. Altri ancora come messaggi in un codice non esprimibile in parole – generato da sentimenti, tradotti in forme e colori che mirano (solo?) a produrre altri sentimenti. Fra questi anche i sentimenti che hanno fatto vibrare corde nascoste in me – metal-meccanico e fabbro di parole pragmatiche e aliene.

 

Adachiara Zevi
Critica e storica dell’arte

“Cercando” del ‘93 e “Percorsi” del ‘95 annunciano gli attuali lavori di Ariela Böhm. Li accomuna il materiale, la ceramica trattata secondo l’antica tecnica Raku, adottata da Ariela sin dal ‘87 e, con brevi pause pittoriche, con continuità e sapienza fino ad oggi.
Le accomuna, soprattutto, un’inversione di tendenza, uno spostamento dell’indagine dall’esterno all’interno, dal fuori al dentro di sé.
Quando Ariela decide di fare l’artista, è una biologa stimata, con un prezioso tirocinio nell’equipe di Rita Levi Montalcini. Per molti è inconcepibile lasciare la via vecchia e sicura per quella impervia e ignota dell’arte. Eppure, quando dichiara: “La tendenza a rappresentare oggetti le cui dimensioni siano state aumentate, vuoi perché infinitamente piccoli o perché infinitamente lontani, unita alla scelta dei soggetti, biologici o comunque naturalistici, è il filo conduttore del mio lavoro” confessa una continuità più che una cesura, un accumulo e riconversione di energia, piuttosto che una sua dispersione. Foreste, pianeti, eclissi sembrano scrutati al microscopio, ingranditi, per mettere a fuoco dettagli strutturali come le venature del legno, a volte coincidenti con la “craquelure” generata dal processo di lavorazione.
Dimensionalmente dilatate, decentrate su un fondo nero opaco, quelle forme, astratte e spaesate, evocano anche pianeti in movimento attraverso un cielo notturno.
“Cercando” nasce da “Vulcano” ma anziché rivelare un bellissimo cratere azzurro, apre su brani di testi biblici dalle lettere luminose e cangianti. “Sono affascinata dalla potenza di questi testi ancora vivi ed attuali oltre che antichi e sacri, sempre in grado di stimolare il pensiero in una ricerca di senso che prosegue nel tempo aggiungendo sempre nuovi elementi fintanto che nuovi sono i ricercatori”. Ariela appartiene al popolo del Libro e, da artista, partecipa al suo millenario ed inesauribile commento. Quelle lettere, per i più, semplici segni astratti, assieme a quelle decifrabili del nostro alfabeto, a fianco di note musicali e di mere traiettorie, accompagnano il corso di un fiume, nero in “Percorsi III”, oro negli esemplari successivi. Ricco di diramazioni ed affluenti, esso scava il suo letto, cerca la sua strada fra frammenti d’identità, personale ed artistica, disomogenei ed incongrui, ma ancora riconducibili ad unità. “Come l’acqua di un fiume troviamo il nostro percorso che è sì ciò che facciamo ma anche ciò che non vogliamo o non possiamo fare; scegliamo dove passare e come, con che velocità e con che attenzione”. Parole lucide e ferme ma nelle quali serpeggia già un’inquietudine.
Valanga”, del ‘97, è una valanga annunciata di globi iridescenti disordinatamente accavallati sul supporto nero che li opprime anziché sostenerli. Sono cellule, viscere, materia organica, come quel tronco d’albero nel quale, nere e brucianti, affondano precipitando. “Gemmano, crescono le angosce, noduli definiti che pesano, affondano nella matrice organica della mia coscienza, si nutrono della mia vitalità, si accrescono con la mia capacità di elaborazione”. I frammenti d’identità che in “Percorsi” riescono ancora a combaciare, sfuggono ora ad ogni controllo razionale. E’ l’organismo che, nel nutrirli, alimenta le proprie angosce.
Ma Ariela non si dà per vinta: recupera lettere e note, fornisce loro una struttura modulare, a mattoni, con i quali ricostruire quel controllo. Compito arduo, se il supporto è quello sfuggente e scivoloso dello specchio. Macchiato, degradato, invecchiato, esso restituisce un’immagine inquieta e disturbata. “Sul fragile supporto dell’esistenza, mentre costruisco le strutture che definiscono la mia persona, appare a tratti qualche confuso brandello di me che sfugge a qualunque ragionevole geometria”.
Poi scoppiano, dolorose, rivelando frammenti di me ancora sconosciuti e in parte indecifrabili”, commenta Ariela a proposito del lavoro forse più intricante. I globi, prima affondati nella materia organica ora si riscattano, reagiscono, recuperano il consueto fondo nero. Si dischiudono anch’essi sullo specchio, questa volta chiaro, nitido, che restituisce senza infingimenti la realtà che lo fronteggia.

Hanno inoltre scritto:
P. Balmas, E. Bilardello, B. Codogno, F. Di Castro, E. Di Martino, P. Ferri, M. Fioramanti, M. Gargiulo, R. Gavarro, E. La Cava, L. Lambertini, G. Latini, D. Liberanome, G. Limentani, P. Lollo, V. Martinoli, B. Martusciello, F. Miccadei, N. Micieli, E. Muschella, L. Pratesi, A. Romani Brizzi, A. Sandri, M. L. Trevisan, L. Turco Liveri, G. Vannucci, S. Weiller, T. Zambrotta.